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Dopo la delusione dell’esito del Summit di Copenhagen, che ha aperto una lunga pausa riflessiva negli ambienti diplomatici, si ricomincia a pensare alle strategie per il futuro.
L’assenza di un accordo su obiettivi di riduzione a lungo termine e di una data per trasformare l’accordo in trattato vincolante, hanno creato una sensazione generale di stallo. Le analisi degli addetti ai lavori e della stampa internazionale si sono soffermate sui principali aspetti critici emersi dal negoziato, cioè l’indebolimento del ruolo dell’Unione Europea, l’emergere di nuovi attori influenti nel processo, in particolare Stati Uniti e Cina, e l’inadeguatezza strutturale delle Nazioni Unite per un negoziato così ambizioso e complesso che comprende 193 paesi.
Alla luce di queste valutazioni, quali possono essere quindi i propositi per il 2010? A livello internazionale, le priorità saranno il rafforzamento della coalizione di Paesi che hanno spinto per un accordo e la riforma del processo negoziale per evitare un blocco decisionale, come si è verificato a Copenhagen. Ma la sfida sarà soprattutto all’interno dei singoli Paesi, che dovranno rafforzare gli impegni di riduzione di emissioni e mettere a punto strumenti adeguati per realizzarli.
In base all’Accordo di Copenhagen, entro il 31 gennaio 2010, i 49 Paesi firmatari (che rappresentano l’80% delle emissioni globali) dovranno presentare i rispettivi obiettivi nazionali di riduzione di emissioni di CO2 da qui al 2020. L’impegno riguarda sia i paesi sviluppati che quelli in via di sviluppo. Si tratta di un passo avanti cruciale nella politica internazionale rispetto al Trattato di Kyoto, che fissava impegni vincolanti solo per i paesi sviluppati e fino al 2012.
Lo scenario internazionale è piuttosto variegato, ma alcune proposte portate al tavolo dei negoziati a dicembre sono promettenti. Il Brasile ha offerto di ridurre le emissioni del 38-42% entro il 2020. Il Piano Nazionale sui Cambiamenti Climatici prevede ambiziose misure forestali, compreso un obiettivo di eliminare la deforestazione illegale del 70% entro il 2017, recentemente esteso all’80% entro il 2020. Il Messico ha definito un Programma Speciale sui Cambiamenti Cimatici che prevede 86 obiettivi specifici per ridurre le emissioni entro il 2012. Il Giappone ha proposto un 15% al di sotto dei livelli del 2005 (equivalente all’ 8% al di sotto dei livelli del 1990) fino a un -25% vincolato dall’esito del negoziato. La Cina ha proposto una riduzione dell’intensità di carbonio del 40-45% rispetto ai livelli del 2005, entro il 2020. Il Sudafrica ha proposto una riduzione del 32% rispetto ai livelli business as usual entro il 2020, e del 42% entro il 2025. Il 2010 sarà soprattutto un anno cruciale per gli Stati Uniti, l’American Clean Energy and Security Act ‘Waxman-Markey’, che stabilisce una riduzione del 17% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2020, e’ in attesa di essere approvato dal Senato e il percorso si sa che sarà problematico.
Si tratta di obiettivi molto diversi in termini di impegni e i Paesi sembrano procedere in ordine sparso. A Copenhagen e’ stata persa l’occasione di fissare obiettivi condivisi per rendere stringente lo sforzo di tutti i paesi e dare una struttura globale coerente alle diverse politiche. La presentazione degli obiettivi di riduzione entro la fine di gennaio resta comunque una tappa fondamentale per cercare di contenere l’aumento delle temperature entro i 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali, il limite che gli scienziati esortano a non oltrepassare per non rischiare effetti irreversibili per la vita sul pianeta.
Tra le altre novità positive dell’Accordo, la definizione di uno strumento di monitoraggio e verifica dell’abbattimento di emissioni e l’accordo sui finanziamenti ai paesi in via di sviluppo per la realizzazione di politiche di riduzione delle emissioni e di adattamento ai cambiamenti climatici. Sarà stanziato un fondo iniziale di 10 miliardi di dollari l’anno da qui al 2012, con uno specifico sostegno alla lotta contro la deforestazione. Il Regno Unito ha contributo al fondo con 2,4 miliardi di dollari. L’Accordo ha stabilito anche l’obiettivo a lungo termine di raggiungere stanziamenti pubblici e privati per 100 miliardi di dollari l’anno per i paesi in via di sviluppo entro il 2020.
Sebbene l’Accordo sia stato riconosciuto come un primo passo importante sia dal Segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon che dal Primo Ministro britannico Gordon Brown, la società civile e il governo britannico hanno espresso disappunto. Ed Miliband, Segretario di Stato per l’Energia e i Cambiamenti Climatici ha definito l’Accordo “insoddisfacente sotto diversi punti di vista” e ha dichiarato che la politica deve fare ancora molta strada per mettersi al passo con la scienza.
I prossimi appuntamenti cruciali saranno la Conferenza di Bonn (31 maggio- 11 giugno) e la Conferenza delle Parti dell’UNFCCC, che si terrà a dicembre 2010 in Messico. Intanto, nel Regno Unito il Primo Ministro Gordon Brown ha deciso di condurre una campagna internazionale per trasformare questo accordo in un trattato il prima possibile.
La società civile è rimasta altrettanto delusa del fallimento dei negoziati. Anche qui però, emerge un atteggiamento di riflessione critica costruttiva. Si sente il bisogno di una svolta nel modo in cui si concepiscono le campagne sui cambiamenti cimatici. Come ha sottolineato Franny Armstrong, regista del film sui cambiamenti climatici “The Age of Stupid” “Basta con i manifesti, i siti web e le urla per strada. E’ ora di rimboccarsi le maniche e di iniziare tutti insieme ad agire. Se si aspetta che lo faccia la politica sarà troppo tardi.” Quante delle aziende, associazioni e individui che hanno partecipato alle campagne sui cambiamenti climatici metteranno veramente in pratica le azioni necessarie per ridurre le proprie emissioni?
Per citare le parole di Ed Miliband “anche se la transizione a livello globale verso un’economia a basse emissioni di carbonio non ha ancora ottenuto una forma legale a livello internazionale, la scienza, l’opinione pubblica e le opportunità economiche hanno reso questa transizione irreversibile”.
Barbara Mariani
Climate, Energy and Environment
British Embassy Rome
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