Articolo pubblicato da LaStampa.it in collaborazione con Greenews.info.
“Durban è un'opportunità importante per fare progressi, ma non è la fine della strada”. A venti giorni dall'avvio delle negoziazioni sul clima di Durban, la Commissaria Europea per il Clima Connie Hedegaard mette le mani avanti sui possibili esiti del summit, affermando che “l'Europa deve essere in una posizione di definire una road map chiara e una tempistica, ma da sola non può avere la risposta per i cambiamenti climatici.”
Per la verità, a Durban ci si aspetterebbe di poter tirare le fila di venti anni di negoziati sul clima, iniziati nel 1992 con l'istituzione dell'Unfccc, l'organismo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Il fine ultimo dell'Unfccc era appunto la stabilizzazione dell'aumento delle temperature a un livello tale da evitare danni per l'uomo, grazie a una riduzione delle emissioni di gas serra da effettuarsi secondo il principio della “responsabilità comune ma differenziata”: è compito di tutti gli Stati - si diceva - partecipare alla lotta contro i cambiamenti climatici, ma allo stesso tempo va tenuto in considerazione che alcuni Stati hanno contribuito di più al problema, semplicemente perché hanno cominciato a inquinare prima, dalla rivoluzione industriale in poi. Le emissioni di gas serra, infatti, rimangono in atmosfera per molti decenni - fino a migliaia di anni - a seconda del gas. Visto che altri Paesi si erano invece appena affacciati allo sviluppo industriale, come Cina e India, questi non potevano, all'epoca delle prime discussioni, essere gravati del compito di ridurre le proprie, basse emissioni.
Perciò nel Protocollo di Kyoto (siglato nel 1997 e in scadenza nel 2012) sono solo i Paesi industrializzati ad assumersi i target di riduzione di CO2, metano e di altri gas climalteranti, in una misura pari al 5% rispetto ai livelli del 1990. Da Kyoto ad ora, però, lo scenario è profondamente cambiato: le emissioni annuali della Cina sono cresciute a un ritmo esponenziale, tanto da superare quelle degli Stati Uniti (anche se le emissioni pro-capite di un cinese rimangono la metà di quelle di un europeo e un quarto di quelle di uno statunitense); le previsioni dell'Ipcc, l'International Panel on Climate Change, sono più precise e purtroppo peggiori, ed evidenziano l'urgenza di cambiare rotta; la temperatura globale è già aumentata di quasi un grado centigrado e i cambiamenti climatici hanno già fornito prove evidenti dei loro primi effetti, con ondate di calore e aumento dei fenomeni meteorologici estremi. Proprio quei fenomeni che stanno sconvolgendo, in questi giorni, l'Italia e altri Paesi: la Tailandia ha sperimentato le peggiori piogge monsoniche degli ultimi cinquanta anni, l'Africa orientale sta soffrendo la peggiore siccità dal secolo scorso, mentre il nostro paese è stato oggetto di un'ondata di piogge torrenziali che hanno provocato alluvioni e disastri a Roma, Napoli, Genova e lungo la Costa ligure. Quella che prima era un'eccezione, sta diventando la norma.
Si sta verificando cioè il peggior scenario previsto dagli scienziati , che ribadiscono come sia urgente prendere misure idonee a ridurre le emissioni di gas climalteranti e adattarsi al più presto alle variazioni climatiche che inevitabilmente dovremo affrontare. Per evitare danni irreversibili al nostro sistema climatico, secondo l'IPCC l'aumento medio delle temperature dovrebbe essere mantenuto al massimo entro i due gradi centigradi, obiettivo teoricamente raggiungibile tagliando le emissioni globali del 50% entro il 2050.
Il raggiungimento di un nuovo trattato che vada oltre il Protocollo di Kyoto e che possa includere tutti i maggiori Stati del mondo, diventa perciò fondamentale. Eppure le previsioni per Durban non sono rosee: dal summit di Copenhagen del 2009 in poi, le negoziazioni sono ferme in un'impasse imbarazzante, che coinvolge, in primis, I due maggiori inquinatori del mondo: Stati Uniti e Cina. La Cina non ha intenzione di aderire a target vincolanti di riduzione delle emissioni di CO2, ma solo di contribuire all'impegno globale con impegni di carattere volontario, come quello, già messo nel piatto di Copenhagen, di aumentare l'efficienza energetica (l'ammontare di CO2 associato alla produzione) del 45% e di aumentare la copertura forestale. Il Governo Obama, da parte sua, si presenterà a Durban senza aver nemmeno ancora approvato una legge interna sul clima, visto che le attuali priorità dell'amministrazione si sono spostate sugli avvenimenti economico-finanziari.
Saranno sufficienti gli impegni volontari per vincere la sfida del clima? Uno studio recente dei ricercatori Carlo Carraro ed Emanuele Massetti dice di no: anche se rispettati integralmente, non saranno sufficienti a stabilizzare le emissioni entro i due gradi centigradi, portandoci a uno scenario di aumento di più di tre gradi. Ma i fondi di finanziamento previsti per la lotta a favore del clima potrebbero contribuire comunque significativamente ad avvicinarci al raggiungimento degli obiettivi, insieme alla lotta alla deforestazione.
Se dunque non si intravedono molte possibilità per il raggiungimento di un accordo con target vincolante di riduzione delle emissioni nelle negoziazioni di Durban, rimane però la speranza che l'urgenza di trovare un sostituto al Protocollo di Kyoto in scadenza spinga i governi ad adottare almeno ulteriori misure di carattere volontario che, seppur inadeguate sul lungo termine, possano ancora offrire qualche possibilità di correggere la rotta in futuro ed evitare variazioni catastrofiche del sistema climatico. L'inazione totale sarebbe un disastro.
Veronica Caciagli
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